C’è un nuovo mantra che sta percorrendo i corridoi e gli uffici delle imprese. È l’inclusione, quel principio che dovrebbe garantire a ogni cittadino la partecipazione alla vita civile, indipendentemente da elementi che rendono diverse le persone e che possono apparire come dei limiti. Ma bisogna fare attenzione perché la relazione tra imprese e inclusione, con le sue declinazioni “accessibilità”, “diversità” e “mobilità”, non è lineare. Alcune imprese, pur di non assumere persone con diversità, sono disposte a pagare la sanzione per non aver rispettato le quote di persone con disabilità in azienda. Altre riconoscono il talento delle persone, chiunque esse siano, e investono per svilupparlo. Infine, ci sono le imprese che mettono in pratica “l’inclusione da sottoscala” nella quale le persone con disabilità vengono assunte e nascoste. Questioni di estetica? No, essere inclusivi è, o dovrebbe essere, una questione di umanità, e non di quote da rispettare. Umanità che è mancata in better.com quando, alcuni anni fa, ha licenziato 900 persone in contemporanea in videoconferenza, comprese le nove persone del team “diversità & inclusione” . Fortuna vuole che ci siano persone che credono che il loro talento possa essere messo al servizio di chi ha una diversità, e che credono che i talenti risiedano in ciascuno di noi

Il team di Pit’sa

La visione di “Pit’sa”
Da alcuni mesi in via Cadore a Milano due giovani imprenditori, Giovanni Nicolussi e la moglie Valentina Giacomin, hanno aperto una pizzeria particolare, la seconda dopo quella inaugurata tre anni fa a Bergamo. Mentre il cliente, appena entrato, sta ancora cercando di decifrare la scritta che campeggia sul muro, una ragazza con la Sindrome di Down lo riceve calorosamente e lo accompagna al tavolo. È una delle cinque persone con sindrome di Down che gestiscono la sala. Consigliano cosa ordinare, prendono le comande, portano le pizze ai tavoli, apparecchiano, sparecchiano, portano il conto: insomma, si assicurano che tutto funzioni al meglio. È qualcosa di normale? No. Infatti, partendo da Pit’sa Giovanni vuole lanciare una sfida alle imprese: si può fare impresa con l’inclusione e migliorare il mondo. “Quello che i clienti trovano da noi non è il solito servizio. Aprirsi al nuovo non è semplice, ce ne rendiamo conto, ma regala grandi soddisfazioni quando ce lo si concede. La nostra è una squadra dichiaratamente inclusiva che vuole valorizzare le diversità: senza troppi giri di parole. Abbiamo deciso di fare impresa per fare “inclusione” e “migliorare il mondo”, non per arricchirci. O meglio, abbiamo aperto la pizzeria per dimostrare che si può fare impresa con l’inclusione e migliorando il mondo”.

“Pit’sa” si legge “Pizza”

Tante volte le persone si giudicano con gli occhi, e tante volte prendiamo dei granchi. Come il logo che è scritto “un po’ strano”, ma quando lo si legge a livello fonetico, la T’ e la S si pronuncia “pizza”.

La scelta della ristorazione non è stata né improvvisata né avventata. Giovanni e Valentina amano ricevere gli amici a cena. Amano farli stare bene. Fa parte della loro personalità. Per Giovanni, è addirittura un imprinting. “Quando i miei genitori organizzavano una cena tra amici per tutti erano le ore più felici della settimana. Anche il ristorante deve essere così, deve farti passare bene un un’ora, mezz’ora o il tempo di un caffè. È il luogo adatto per moltiplicare l’impatto della inclusione”. Giovanni, inoltre, ha sviluppato solide competenze nel management della ristorazione. Dopo una carriera nel calcio che lo aveva portato fino al “Lanerossi Vicenza” ha seguito la sua seconda passione.
La vita non è stata “leggera” con Giovanni e Valentina. Il fratello maggiore di Giovanni è tetraplegico a causa di un incidente d’auto, la madre combatte contro un tumore, lo zio di Valentina ha la sindrome di Down. La famiglia non subisce queste limitazioni. Anzi. Ne trae ispirazione. “Prendersi cura”, l’essenza dell’umanità, è un valore che Giovanni impara accudendo il fratello.


È il fratello maggiore a spingere Giovanni a creare qualcosa di duraturo per la famiglia. Giovanni non si fa cogliere impreparato. Vuole partecipare, dire la sua, “senza giri di parole”. La sua è una piccola rivoluzione. Ogni tanto un imprenditore si presenta alla porta di Pit’sa per chiedere a Giovanni consigli su come rendere inclusiva la sua impresa. “Il confronto è franco e alle volte duro. Voglio mettere alla prova le motivazioni profonde dell’imprenditore. E se da qualche parte intuisco che la motivazione è solo opportunistica allora cerco di far desistere l’imprenditore ad assumere persone con qualsiasi disabilità. Se lo assume per avere visibilità e poi lo impiega a lavare le finestre gli sta facendo più male che bene”.
Per poter essere credibile Giovanni ha costituito Pit’sa come società benefit, Startup innovativa a impatto sociale. Rinunciando ad essere una organizzazione del terzo settore ha rinunciato alle donazioni. Ma una rivoluzione deve essere combattuta con coerenza e autenticità. “Un imprenditore inclusivo deve avere cuore e passione. Non dimentico che con la passione non si arriva a fine mese. L’imprenditore inclusivo deve essere molto preparato sui numeri. Poi deve crederci. Deve credere veramente che la sua azienda sarà migliore perché inclusiva. E io ci credo”

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